Un progetto di poesia performativa
(postfazione di Gabriele Frasca, a cura de “Gli Ammutinati”, Battello stampatore, 2008)
Testi di:
Dome Bulfaro, Silvia Cassioli, Matteo Danieli, Luigi Nacci, Adriano Padua, Luciano Pagano, Furio Pillan, Silvia Salvagnini, Christian Sinicco.
Per ordinare il libro: Battello Stampatore – via Rismondo, 14 – 34133 Trieste – tel 040 761954 fax 040 3474448 e-mail: tipografia@adriatica.191.it
Dalla nota dei curatori:
[…]
Pubblicare l’ennesima antologia non è di certo un esercizio di sopravvivenza, né per chi l’ha scritta, né per chi la leggerà. Il motivo che ci ha spinto a pensarla e a realizzarla è un altro: ci è parso di individuare nella poesia degli ultimi anni due tendenze, se non dominanti perlomeno più aggreganti rispetto alle altre: da una parte un sostanziale arretramento della lingua poetica a bisbiglio prosastico, privo di ritmo, di musicalità; dall’altra parte invece un rinsaldarsi delle posizioni post-avanguardiste attorno a una lingua experimentum, la quale a volte si ri-metricizza rigorosamente, a volte si fa canto, a volte si struttura quasi a simulare il rap. Non stiamo affermando che questi siano i filoni maggioritari o più importanti, sosteniamo soltanto, basandoci sul dato empirico delle nostre esperienze, che a noi queste due linee sembrano oggi nell’atto di venir marcate con più forza, anche grazie a riviste, case editrici, siti internet, blog e festival che prediligono più dichiaratamente l’una rispetto all’altra. Postulata tale visione come base del nostro ragionamento, a noi sembra che manchi l’attenzione verso la linea o l’incrocio di linee che ricercano una zona mediana tra le due sopracitate: un limbo in cui la parola riesca a stare, come un equilibrista, in bilico tra ricerca di senso, costruzione di una visione del mondo e ricerca metrico-prosodica (anche in direzione di nuovi spazi metrici) senza che nessuna di tali tensioni si sacrifichi per far spazio all’altra. Consci della pericolosità del nostro dire, non ci azzardiamo avanti in disquisizioni teoriche che potrebbero ricordare la prosopopea di certi manifesti del passato. Qui non vi sono proclami. Ci siamo sforzati di immaginare quella zona mediana, dopodiché siamo andati alla ricerca di coetanei (nati dopo il 1970) che a nostro personale modo di vedere possano rientrare in quella zona, quindi abbiamo chiesto loro di spedirci dei testi che a loro modo di vedere potessero rientrare in quella zona, infine abbiamo selezionato i loro testi cercando di farli stare nel cuore di quella zona il più possibile. Et voilà: ecco – sarà un caso? – un gruppo di autori che sa anche performare i propri testi!
Il calabrone vola tenendo come rotta la linea che taglia in due parti uguali (ma non per forza superfici fatte solo di angoli retti) quella zona mediana. Il calabrone simboleggia la parola carica di senso e di vitalità che crepitando/risuonando tiene la rotta senza abbandonarla mai: un calo del battito vorrebbe dire caduta/morte, la mancanza di una meta verso la quale volare genererebbe titubanza, cioè temporeggiamento, cioè caduta/morte.
[…]
(sopra, particolare della copertina: disegno di Ugo Pierri)
Breve antologia
Dome Bulfaro da Reperti Contatti Ictus
CARNIFICAZIONE
contatto n° 0
Mai immaginato avrei mai mai che il naso
un giorno avrebbe offeso l’occhio, l’occhio
nel vuoto avrebbe paralizzato i suoi tic
mai immaginato avrei mai che quei denti
potessero ringhiare alla propria mano, la mano
destra un giorno accoltellasse la sua sinistra
mai immaginato avrei l’anima mia finisse
per sgusciare la sua testa, la testa
un giorno si sarebbe scontrata con le ginocchia
mai eppure è successo che il corpo di tutti
s’issasse sulla croce con le sue stesse vene, le vene
blu di ogni uomo votassero il proprio collasso!
le vene blu di ogni uomo votassero il proprio
collasso! il blu d’ogni uomo votasse: collasso!
DEPOSIZIONE DELLA SCHIENA
contatto n° 29
Poi mi stacchi dal cielo adagi ciglia
con le nocche penzolanti sui denti
riposo in braccio al bacio di mia madre
che mi culla su fette di pane, apri
la bocca e m’inghiotti nel seno, mai
mi vedi per così: coi bulbi senza
tuorlo, mentre trascinano il mio sguardo
che la fissa incurante delle buche
e del suo strazio che m’inzuppa il viso.
Inarchi gravidanze nella zanna
fuori dal grembo intagli urla neonate
e ora come un ponte con le costole
fratturate, la inghiotto nel mio torace
privo di polmoni con le sue urla
ancora vive soffocate a mucchi
– ora ti comprendo! – ci rinfacciamo
schiena contro schiena il mio schianto al suo
schiena nella schiena il mio spiro il tuo
E mi chiedi come distinguo la fine
non all’ultima poesia o al punto o a capo
la fine d’un libro si mostra quando
la schiena all’orizzonte schiuma, mai
mi trovo all’altezza quando bussi entri
nella carne mi dici che sei morto
su due piedi dai la schiena sprofondi
sordo esci di scena da me vorresti
sorrisi invece piango più per me
che per te – dei topi ho ancora paura –
resta! le mie chele ficcate in gola
resta! il mento che ti affonda la schiena
– così ci si uccide due volte – ad ogni
costo trattenersi non accettare
che la tua vita non sia mia, né sia
mia la mia, nella fine nessun bene
viene sottratto ma in terra rinasce
un seme, tu io dormienti tra due schiene
Silvia Cassioli da Alla dottoressa M, per un’analisi
lottavo nella fazione di quelli che quando non mangiavano la carne volavano
contro ai mangiatori di carne veri e propri riconoscibili per gli orecchi a forma di missile, quando
il capo fazione avversario riusciva a liberarsi i piedi che gli avevamo legato con un laccio e a quel punto
il tentativo di golpe nemico riusciva e bisognava scappare lungo
i corridoi di Palazzo, genericamente fatti a scale che portavano nel fondo
di questo Palazzo, un buco di stanzino dove ci dormiva dentro sopra a un panchetto
la Volpe (il Gatto l’avevamo visto prima, in un’altra stanza)
e cosí bisognava trovare un’altra via di uscita, un altro varco oltre le Grandi Mura
e questo sempre volando basso ma sempre troppo piano
con l’elica che girava sí ma sempre troppo lenta.
***
c’era una sirena che gridava, un allarme.
un muletto che suonava, in retromarcia.
una macchina che andava, piano.
un camion che si ribaltava, completamente.
noi che correvamo sui tetti, i soliti.
mia madre che trovava il suo posto assegnato, al cinema.
numerose le susine che negli alberi, maturavano.
numerosi gli uccelli che nel frattempo, volavano.
altri che cercavano e becchettavano, le briciole.
sotto ai cespugli delle rose, negromanti.
Matteo Danieli da Genetica della stanza
The House Wedding poem
To Philip Larkin
and the Whitsun Weddings
Mi chiedo: sono qua, tesoro
Vivo, respiro, mi tocco, ci sono
E mi sembra che tutto quanto, le quante cose
Siano al loro posto impiegabili
Ordinate, attese e presentabili
Come lo sono sempre state
Tutte le cose, nella stanza.
Sono qua, la musica va
Chebrando i portanti, rasente a quei muri
A questi ora, a quelli ancora
Come fiutando il presagio o più sornionamente
Languendo nell’aria alla modica
Distanza, da quelli che sono gli esclusi.
Sono qua tesoro
Placido come nunca mi hai visto
Nel recinto di cemento della mia sola scrittura
Scrutandomi, seguendo quell’altro mio essere
Disteso, in piedi, seduto, disteso
Mentre mi sembra il sole abbia toccato
Già quindici volte il punto più estremo.
Ma non può essere passato così tanto tempo.
Eppur è vero: reminiscenze di quella
Che una volta chiamammo la storia
Nostra, si gonfiano nella mia testa, si sgonfiano.
E’ triste sapere come
Sia la dimenticanza a rendere tese le cose
Nella mia stanza; e mi chiedo quanti uomini furono eletti
Prima che il parroco facesse il mio nome
Chiamandomi interprete della memoria
Facendomi onore del gesto
Che non è rimasto.
Che casa.
Das Nachtasyl poem
in questo nachtasyl
in questa notte la vita sembra stanca
in questa notte di sussidiari immobili
stelle.
Le case o meglio gli edifici strutturati
come case, come archivi della lunga gestazione
dalla finestra questa notte appaiono
da una finestra non più vasta di un’icona
da una finestra questa notte appaiono le cose
strutturate come archivi della lunga gestazione
icone, i disegni d’un interruttore
d’una presa
d’un muro d’una casa
d’un tratto d’una strada
che portava le parole del commercio
e tu giacevi nuda sul mio letto
d’una camera d’albergo Ninotte, ieri
semiaddormentata, fintaddormentata, onda,
trave, pesce e galleggiavi, trasmutante silenziosa
buia sul mio letto nella stanza ed eri
e un azzurro intenso sanciva il nostro gelo.
Luigi Nacci da SS²
Bewerber
Dirottiamo aeroplani di carta nei giorni di vento
Tramontana ci porta lontano e maestrale ci impenna
Nella stiva fa freddo si ghiaccia si gelano gli occhi
Non si vedono piste e non sono previsti atterraggi
Ci copriamo con pacchi-lenzuola e con coltri-bagagli
Incrociamo gli sguardi ma senza azzardarci a parlare
Che l’ossigeno è poco e il pensiero si ossida presto
Ci conforta il reattore che sparge potente il suo canto
Ed è come l’apnea delle prime nuotate in piscina
O la faccia contratta nel vetro del treno che parte
Ci mettiamo a soffiare a soffiare pensando alla luna
Si potesse saltare aggrapparsi coll’unghie a dei cirri
Poter dire una volta di avercela avuta la testa fra le nuvole
A giorni alterni qui crollano le case in tutte le stagioni
Nelle macerie si gioca a nascondino prima dei soccorsi
Liberatutti canticchiano le ruspe e arrivano i becchini
Scrivono i corvi con tremuli becchi la lista dei dispersi
Con le bombe facciamo palleggi di testa di piede di mano
Piroette sgambetti e passaggi fin quando non cade per terra
È un saltare di dita che pare la festa del primo dell’anno
A ciascuno il suo scoppio a ciascuno il tripudio di fuochi che spetta
Come stelle filanti le dita ricadono ognuna al suo posto
Ci si stringe le mani e stringendo si aspetta che faccia mattino
Zoppicando torniamo alle nostre baracche con meno coraggio
E c’è sempre qualcuno che arriva e controlla e ci conta e ci dice
Che nel campo si tace si dorme si muore anche il sogno è proibito
Siamo scorie eccedenze rovine del tempo robaccia che brucia
Riciclarci per cosa e per chi riciclarci per fare che cosa
Mentre grida ha negli occhi decine di metri di filo spinato
Col suo filo faremo una fune che sale alla volta celeste
Poter dire una volta di avercela avuta la testa fra le nuvole
A giorni alterni qui crollano le case in tutte le stagioni
Nelle macerie si gioca a nascondino prima dei soccorsi
Liberatutti canticchiano le bombe e sparano i cecchini
Scrivono i corvi con tremuli becchi la lista dei dispersi
Anwarter
Ci areniamo in scogliere e carcasse di mostri marini
Incagliati restiamo in attesa dell’altra marea
C’è chi pesca chi prega chi parla alla stella polare
Le sirene non sprecano colpi di coda per noi
Dalla costa si levano gridi e segnali di luce
Il guardiano del faro fa segno di andarcene via
Pescecani pirati pattuglie di guardia costiera
Quanti denti ha lo squalo ed è fiero di farli vedere
La frontiera si staglia di fronte le cose e le taglia
In due volti due sguardi due modi di batter le ciglia
Le scialuppe si calano a mare e si mettono in salvo
Con i remi si accendono fuochi che scaldano i visi
Ci affidiamo spaesati al timone e alla sua buona sorte
Lo scirocco ci spinge si suda e respira a fatica
E nel sale che satura l’aria si pensa alla casa
Alle cose lasciate sull’uscio e i saluti di rito
Ma fra tutte le cose soltanto la terra non torna alla mente
Sbrana un uomo lo squalo ed è fiero del sangue che sparge
La frontiera si staglia di fronte le cose e le taglia
In due volti due sguardi due modi di batter le ciglia
Una volta tagliate le cose sviluppano forme parziali
Camminare sull’acqua debilita stinchi e caviglie
In colonna si marcia evitando le onde più grandi
Terra in vista è la frase che ognuno vorrebbe strillare
Sotto il sole si spargono i corpi di piaghe e miraggi
Come giona a decine si lasciano andare nei flutti
Rifugiati nel ventre dei pesci pensiamo alla casa
Elicotteri navi e plotoni di guardia costiera
Dalla terra si parte e alla terra faremo ritorno
La frontiera si staglia di fronte le cose e le taglia
In due volti due sguardi due modi di batter le ciglia
Una volta tagliate le cose sviluppano forme parziali
Si allontanano l’una dall’altra laconiche ortogonali
Adriano Padua da RADIAZIONI (buio/luce/corpi)
composto in geometrie che il vuoto ne determinano
il buio incessante s’espande a creare contrasti cromatici oltre
atroce del cielo i colori distrugge e sovrasta e le linee ritorce
divelta la luce dai corpi nei quali s’inarca e visibili apre le crepe
la quiete è terribile e ferma è un gendarme
presidia le strade sconnesse e le case
le frasi che in bocca di niente non sanno
le cose rimaste così come stanno
gli squarci si formano enormi nell’aria spaccata che tende a rapprendersi
schierarci ci serve soltanto ad avere e esibire un inutile alibi
saremo noi stessi nei nuovi massacri a venire le prede e i carnefici
per questo dobbiamo comunque provare a nasconderci senza esitare
ma addosso rimane per sempre l’odore del sangue e il rumore che siamo
e dunque salvarsi non sembra per niente possibile almeno per ora
*
la luce accumulandosi riverbera se stessa nei rottami
vibrando traccia il segno che scandisce della notte il movimento
è un elemento intermittente di silenzio e suono a saturare l’aria
fluido come un respiro muto a stento trattenuto sopra le parole
che hanno un sapore assurdo e ruvido di ossido e di ruggine residua
e un non sopito impulso a consumarsi nei resti d’ossigeno impuro
insinuando intorno stati di tensione e su di noi stringendo
la presa dei morsi dell’ansia che lasciano segni profondi nei corpi
comincia il ritorno del viaggio e bisogna voltarsi e fissare
lo sguardo nel prossimo buio da dove deriva ogni gesto il suo termine
con gli occhi sgranati e rivolti nel verso di questo possibile abisso
soltanto adesso apparso a cancellare le ombre torbide
Luciano Pagano
sentiero interrotto
dov’è che ho perso tutti i miei frammenti,
particole di derma su cuscini sfiorati
consunti e loro parti come nastri
come pagine bende e poi per esse
comunicando postriboli
di questi testi rammendati forse,
dov’è che ho perso un fuoco dell’ellisse
s’è imbrogliata, s’attorce,
e lì che mi hanno preso
qualcosa le parole che hanno tolto
da quel cielo, oh fratello, oh fratello, mi dice
come sopra, non trova e incespica
oh la pietra
il suo diesis corrotto, dov’è – perché ripete –
immanuel è crepato, kant lo segue
in un’orrida buca senza fiato
budello in la stagione del sintagma
con tutte le aporie mentre mi piove
e che pioggia piove, oh fratello:
resisti.
Omen.
Nomen.
acqua
raccoglimi qui dove l’abbandono,
semplice chiodo,
gioia di quel declino appena scritto
si sia disfatto al chiaro di mattina.
Terrò le corde tenere sul ritmo,
rimerò il timbro chiaro di freschezza,
coltiverò l’aceto della vigna:
finto nel grado zero di comunicazione
terso dalla condanna
[…]
il nero della terra giù nel catino
la sabbia, asciutto il viso calmo che lavato, penso,
illusa acqua che bagna: è solo acqua.
Acqua, Pilato.
Furio Pillan da Del tempo e di altre invenzioni
contemporamoreneità
accanto al tuo corpo il mio tempo rallenta
altrettanto fa il tuo.
Tra gli atomi d’aria che urtano il timpano
quando dico ti amo
ce n’era qualcuno che era parte di me
e del mio sangue del mio respiro
di quella voglia matta che ho
di rotolare nell’erba
di fare all’amore
di morire in battaglia
di cuocere il pane.
Come fa la Terra con gli orologi
è il tuo corpo a rallentare il mio tempo
a renderlo schiavo
ad attirare il mio aratro lungo il sentiero
di una geodetica immateriale
a curvare lo spazio delle emozioni
lontano dal me che ero prima del viaggio
in discesa verso di te
verso la proiezione di me dentro di te
verso il punto – te.
E poi stretti senza parlare
senza respiro
senza alcun moto relativo
perché la contemporaneità è propria
solo delle parti di un unico corpo
meglio se infinitesimo e non roteante.
Il tempo degli uomini ha un senso
solo in quell’attimo dopo l’amplesso
perché è finalmente lo stesso
perché non esiste nella stessa misura
ballata dell’amor relativo ( ristretto )
io posso viaggiare nel tuo futuro
angelo mio dalle ali di vetro
perché un giovane prima di me
rubò le ceneri del fuoco sacro.
Potremmo fare l’amore oggi, adesso
e concepire il nostro piccolo
universo di carne.
L’uovo da cui nascerà
è la sola immortalità che ci è concessa
e tu saresti felice quanto solo una donna
è capace.
Ma non sarà per quel dono di uomo
che farai crescere dentro il tuo grembo
che tu chiamerai con un nome
che mi convincerai a restare
la mia paura è immensa
un anno alla velocità media di 259.807,62 km/sec
io posso viaggiare nel tuo futuro
posso partire e tornare fra un anno dei miei
se solo fossi abbastanza veloce
il nostro bambino avrebbe due anni
avrebbe imparato a dire papà
avrebbe negli occhi il riflesso
degli occhi del padre che mille pianeti
ha rubato dal sacco di dio
un anno alla velocità media di 293.938,77 km/sec
io posso viaggiare nel tuo futuro
potrei ripartire e tornare fra un anno dei miei
se solo fossi abbastanza veloce
tornerei con un mazzo di stelle comete
per chieder perdono,non vedrei le tue rughe,
scaverei il tuo corpo di donna per l’ultima volta
colpirei la tua superficie lunare
con baci asteroidi e lasciandoti il segno
un anno alla velocità media di 299.624,77 km/sec
io posso viaggiare nel tuo futuro
potrei ripartire e tornare fra un anno dei miei
se solo fossi abbastanza veloce
il nostro bambino avrebbe vent’anni
terrebbe per mano una bella ragazza
detesterebbe le mie quattro poesie.
vorrei solo per lui che studiasse
e conservasse una qualche utopia
un anno alla velocità media di 299.833,29 km/sec
io posso viaggiare nel tuo futuro
potrei ripartire e tornare fra un anno dei miei
se solo fossi abbastanza veloce
ti chiederei di sposarmi
accetterei il silenzio come risposta
poserei sulla fronte un anello
rubato a Saturno sulla via del ritorno.
Saresti bella come una stella
un anno alla velocità media di 299.939,99 km/sec
io posso viaggiare nel tuo futuro
potrei ripartire e tornare fra un anno dei miei
se solo fossi abbastanza veloce
troverei un vecchio accanto alla tomba
con in mano dei fiori e nell’altra
dell’acqua perduta dagli occhi
cercherei un abbraccio ma egli direbbe
non può esistere un figlio più vecchio del padre
posso viaggiare nel tuo futuro
se solo avessi abbastanza energia
turbine a vapore di antimateria
migliaia di soli come operai
a spremere luce nel mio motore
ma si viaggia nel tempo solo in avanti
e un poco di lato, all’indietro è impedito
da una radice vestita da vigile-dio
posso viaggiare nel tuo futuro
ma non nel mio
e continuo ad avere un’ immensa paura
Silvia Salvagnini da la storia della gomma
tu sei il in terra
dopo la morte dopo la guerra
il mio vita di prima ritrovato
tu sei così il dal passato ritrovato
il che si prega di ritrovare
dopo la fine dell’ in terra individuale
dopo lo sgretolamento cellulare
sei il filo lanciato
il coriandolo
che ha attraversato
la velocità della luce
la morte/ del fiato.
*
siamo famigliapetalo scoppiato
un laccio slacciato
queste solitudiniappartamenti
siamo ci di noi dimenticati
siamo qualcosa che non piange
ma piange in di tutti i giorni/ tutti/ i fiati.
Christian Sinicco da Ingegneria dei materiali
Ci sono attimi come perderti
dove sei e dove hai chiuso, ma quale ansia
hanno truccato sulle labbra e quale carta hai scelto?
Dove le strade sarebbero state non guardasti
la pioggia,
quale fosse il giorno, la goccia
dove questa convulsa e luminosa corsa allunga
dove sfogli la pagina, soffiando
come in uno specchio, sopra i detriti
camminando nelle pozzanghere, qualsiasi fango sbricioli
e chiunque non abbia mai pensato
sui vetri opachi …
I segni non cancellano,
il materiale le cui infrante labbra appoggi non è tuo,
l’hanno truccato. La storia, i battiti
elettrizzano l’aria, la gravità
sostituita con qualsiasi cosa. E quale carta hai scelto?
Questa, il braccio che le conficcasti, è un cuore.
Qualcosa di forte
si ferma,
continua a piovere dove sei, continua a piovere.
Sapremo mai cosa c’è oltre
dove non sei più invisibile
di ciò che stringi?
***
Questa stanza senza più ricordi, e il sangue sopra i tetti.
Forse hai seguito la sua cronaca,
i mattoni esplodere sulle abitazioni, i volontari
e a centinaia l’alternarsi … il cane abbaia,
ma la confidenza è rossa; ieri
respiravamo senza aprire labbra al non ancora, lanciato
in avanti… Nei corridoi
pieghe di materia difficile da lavare, petali forati
e lettere dall’invisibile, volti,
pezzi della tua infanzia… I graffiti? Una teoria, la nostra
prima di flettere, con i passi
sulle pareti recidere il ventre
-dove slacciano gli organi, anche le definizioni percuotono
noi, sigillati al muro, emozione o vuoto,
esplorazione senza fine, occhi
chiusi. Questa stanza senza più ricordi
e alle sue finestre una corda: tirala,
le piogge allagheranno piano le lenzuola, i palazzi
inclinano già, annegano con paura…L’umanità, il domino?
Le sonorità che non sai
e non puoi tornare com’eri perché
L’architettura non sarà il riflesso dell’inevitabile,
perché se si aprissero le case e lo spazio fosse la nostra capriola
vedresti la profondità. I chilometri del nero
dall’altra parte della strada tra le stelle
hanno grida? Un padre
bestemmia ai suoi figli
al piano di sopra: le grida
le hanno strappate ai silenzi,
abbattute le porte.